Eccoci finalmente alle prese con il debutto adulto, per l’etichetta indipendente PulseBox, dei bolognesi The Pileups.
Nata nell’ormai lontano 2012 come sanguigno progetto garage rock, la college band si è consolidata nel 2014 attorno al cantante e chitarrista Lorenzo Giuffrida, al chitarrista e corista Fabio Bentivogli, al bassista Edoardo Bettini, al batterista Lorenzo Meloni e al tastierista Luca Comaschi.
Sotto lo sguardo benevolo del bassista degli Skiantos Massimo “Magnus” Magnani, i ragazzi hanno poi lavorato sul proprio repertorio, aprendosi via via a un variegato spettro di influenze.
Se infatti fin dal primo ascolto il piglio garage appare evidente sia dall’impatto strumentale, che dal tipo di produzione, la tracklist si rivela in realtà piacevolmente eclettica rispetto alla media dei progetti analoghi.
La partenza è subito a tutto gas: dopo un arpeggio evocativo, No Alibi, il primo proiettile sparato, si rivela uno scoppiettante punk a stelle e strisce. Un bell’esempio di rabbia giovanile, forte di un ritornello innodico e di pregevoli intrecci chitarristici. Già con la successiva Kik, però, abbiamo un completo cambio di scenario, che ci porta nel bel mezzo dei colorati anni sessanta; si tratta, a parere di chi scrive, della vetta dell’album, un mid-tempo melodico che sarebbe stato benissimo nella storica compilation Nuggets e che ricorda altresì revivalisti illuminati come i Veronica Falls. I giri del motore calano quindi ulteriormente con la dondolante ballata folk Anyway, e l’entrata in scena da front-man del batterista Lorenzo Meloni, con un asset live da tipico timido alcolista, basato su uno scampanellante arpeggio di elettrica e su un cantato slacker da indie rock anni novanta à la Pavament; una linea vocale neoclassica di quelle che strapperanno sempre un applauso intorno al falò di turno.
È poi il turno di un’altra delle canzoni meglio riuscite, Carrots are cool, che invece si rivela essere un cocktail lisergico tra il punk di No Alibi e l’aroma sixties di Kik, comunicando quel senso, mi si perdoni l’ossimoro, di agitazione sognante di cui erano maestri gli Hüsker Dü.
Elettriche a briglia sciolta invece in Kirlønge, il pezzo più canonicamente rock del lotto, dove a un cantato con un che di grunge risponde, certo senza reticenza, un lungo assolo di chitarra. La più classica delle cavalcate, che avrebbe trovato forse la sua sede più opportuna in un live sudato e abbondantemente alcolico. Il dado Pileups viene ancora una volta rilanciato con foga rivelando l’ennesima faccia: si parte infatti in tutta fretta per l’Inghilterra punk 77 di Rubbish, una scossa ritmica clashiana perfetta per il vostro sacrosanto pogo domenicale.
Neanche il tempo di riprendersi da una brutta gomitata nelle costole, e un pianoforte e una chitarra acustica introducono a tempo di valzer il purissimo folk di No One, una placida colomba rem che prende poi il volo nel finale con l’ingresso di un’epica elettrica solista, in cui il protagonista è nuovamente il batterista. È solo il preludio all’omonima e fragorosa The Pileups, di nuovo nel filone punk della band.
Chiude il programma quella che è la migliore esecuzione strumentale del disco, la trascinante e power pop I’m not scared of the rain, dove gli intrecci vocali assumono fragranze lennoniane speziate di blues.
Un album di esordio poliedrico e promettente quindi, da cui traspaiono, sopra ogni cosa, un grande amore per i classici del rock melodico e la ricerca dell’espressività più viscerale. Una nostalgica chiamata alla ribalta di un punk rock tipico dei sogni da garage bands e che vede la luce in esecuzioni che tengono botta anche in live, mestando e rimestando le varie tracce in medley improbabili e soli pirotecnici che non ci si aspetterebbe dal genere.
Insomma, ricordi di un passato andato e che tutti quelli della nostra generazione ha segnato e che in eterno continueremo a canticchiare senza vergogna.