Contaminazione. È una parola molto comune nel gergo musicale, che spesso assume connotati positivi.
Si pensi alla contaminazione tra più generi, ovvero all’arte di mettere insieme cose apparentemente molto diverse per creare qualcosa che ancora non c’è.
Ma non solo questo, perché la contaminazione può avvenire tra canali di comunicazione diversi, con l’obiettivo di raggiungere un bacino di pubblico più ampio, uscendo da una determinata nicchia.
Una missione questa che, seppur fattibile, non sempre garantisce una qualità alta del prodotto “canzone” o del pacchetto “artista”.
Ne è una dimostrazione l’influenza che in questi anni ha avuto la televisione nella mission di far conoscere prima, e consacrare poi, le realtà musicali emergenti. Nel 1980, i Buggles cantavano Video Killed The Radio Star, quasi una profezia, dato che in quegli anni l’avvento di MTV avrebbe determinato un radicale cambiamento delle logiche del mercato discografico, rimarcando l’importanza dell’immagine accanto al prodotto sonoro.
Da allora sono passati esattamente quarant’anni e, complice anche e soprattutto lo streaming, il mezzo televisivo, finora considerato il canale più “popolare”, ha nettamente ridimensionato lo spazio dedicato alla musica, a scapito paradossalmente soprattutto dei passaggi riservati ad artisti già affermati, ai quali si sono invece progressivamente preferite le storie legate alla nascita di nuovi talenti. Queste storie passano per quei fenomeni di tendenza che sono ovviamente i talent show, che si pongono l’obiettivo di lanciare “nuove star del panorama musicale”, e che in Italia dilagano da ormai vent’anni, venendo continuamente riproposti in una sorta di accanimento terapeutico. Andiamo, quindi, a vedere il percorso che hanno fatto questi format da noi e cosa hanno dato di nuovo alla musica italiana.
In principio fu il solo Amici, nato come Saranno Famosi, programma che ha dato vita a una pseudo-accademia con le modalità e i ritmi del Grande Fratello: telecamere accese 24 ore su 24, e il pubblico da casa che sceglie il “migliore” con il televoto.
L’inizio fu abbastanza in sordina, infatti nessuno dei concorrenti in gioco nei primi anni è mai riuscito a sfondare successivamente. La parabola raggiunge invece il culmine con il dualismo Amici / X-Factor, negli anni che vanno dal 2008 al 2014, durante i quali si ha la netta sensazione che entrambi i sistemi, televisivo e musicale, siano paralizzati e talent-dipendenti.
Se eri un artista alle prime armi e volevi avere un seguito, dovevi passare da lì, in alternativa potevi già dire addio alla tua carriera. Non solo, perché chi in quegli anni è già famoso, per ottenere un minimo di rinnovata popolarità, si vede costretto alla veste di ospite o “giudice”. È questo, ad esempio, il caso di Morgan che, fino a prima di X-Factor, era conosciuto dagli adolescenti degli anni Novanta per i suoi trascorsi nei Bluvertigo e anche per la sua interessante carriera da solista.
Dopo X-Factor, musicalmente parlando, ha prodotto ben poco, diventando più un fenomeno televisivo che altro. Oppure si pensi a Manuel Agnelli, anche lui quasi costretto a rinnegare il suo passato da artista di nicchia per far conoscere la sua personalità ai più giovani.
Ma il vero paradosso è che, pur avendo la mission di lanciare qualcosa di nuovo, a mancare nei talent è spesso proprio la novità. Da tutti i punti di vista. Partendo dal fatto che la gran parte del percorso fatto dai talenti è focalizzato sui lavori degli altri, sull’interpretazione delle cover, a scapito dei brani inediti per i quali si dà spesso spazio solo a chi arriva in finale. Peraltro, si tratta di canzoni “imposte” e non scelte autonomamente dai ragazzi in base alle loro inclinazioni. Questo ha alimentato il fenomeno di “coverizzazione”, cioè funzioni solo se sei un bravo interprete. Tutto ciò che è autorale è scomparso, non serve. E questo ha creato una fase di stallo anche per gli artisti famosi: se vuoi avere successo devi cantare roba passata, tua o di altri.
Altro aspetto di “novità” è il meccanismo del giudizio. Gli addetti ai lavori fanno solo da cornice, ora a comandare è il televoto, quello del popolo televisivo. Ma siamo sicuri che questo meccanismo sia quello giusto per premiare la qualità? Se si guardano i risultati negli anni, solo una piccola parte di chi si è affermato in queste competizioni, è riuscito ad andare oltre la trasmissione e a rimanere nel tempo.
Si vedano i vari Mengoni, Francesca Michielin, Annalisa, MÅneskin. Gente che probabilmente ce l’avrebbe fatta anche senza il supporto televisivo. E tutti gli altri?
Chi all’Isola dei famosi, chi al Grande Fratello, chi cerca fortuna solo coi tormentoni estivi, chi è scomparso nel nulla.
Artisticamente parlando, poi, i talent non hanno generato nulla delle tendenze attuali: indie, rap e trap sono venuti fuori “da soli”, attraverso lo streaming, YouTube e Spotify. È come se ci fosse paura nel lanciare qualcosa che non c’è, preferendo far uscire artisti a stampo, tutti uguali.
Ci si adegua a ciò che va. Se si presenta un prodotto acustico, o Rock, o autorale, è ritenuto scadente semplicemente perché non lo si sente in giro. Per non parlare dell’influenza che hanno avuto sulle manifestazioni di rilievo della musica Pop, come il vecchio Festival di Sanremo, divenuto schiavo anche lui di meccanismi quali la serata delle cover, e del peso sempre più ampio del televoto come strumento di votazione, senza i quali si griderebbe all’eresia, soltanto per non aver concesso libertà di parola al “popolo sovrano”.
Ma ora, è da ormai cinque anni che questa ondata pare passata, la fase di declino è ormai conclamata, dettata anche da un calo degli ascolti televisivi, oltre che dalla pochezza nell’originalità delle proposte.
E allora torna la domanda: sono davvero serviti a qualcosa questi talent show? Pensate a come sarebbe stato differente il panorama italiano se ci si fosse concentrati più sul prodotto, sull’originalità e non sul riempitivo. Nel 1985 Mark Knopfler cantava Money for Nothing proprio a voler contestare la spasmodica ricerca di comparsate in TV dei cantanti. Forse, col senno di poi, ci aveva visto lungo.