Americano, uscito ormai più di un anno fa per l’etichetta italiana Bitterpill Music, è il disco di debutto dei milanesi MET (Modern Electric Trio). A dispetto del modern nella ragione sociale, contiene un classicissimo hard rock venato di blues, suonato in modo impeccabile dagli esperti Mitia Maccaferri (basso e voce), Fabio Vitiello (chitarra) e Stefano Galli (batteria).
Un immaginario a stelle e strisce rivisitato, come dichiara a gran voce l’emblematica copertina stessa, da un’angolazione europea: con grande energia, i riferimenti dichiarati (ZZ Top, Velvet Revolver, Led Zeppelin, Aerosmith, AC/DC, Gary Moore, ma anche Muse e Jane’s Addiction) sono miscelati in un suono organico e ben catturato da una produzione di livello, ideale per essere riproposto in una incendiaria situazione live.
La tracklist è aperta dal manifesto programmatico Americano, un tellurico riff southern su cui la voce davvero notevole di Maccaferri si inerpica autorevole. Inframmezzato da un evocativo assolo di chitarra, il brano svolge efficacemente il ruolo di maestro di cerimonia.
Segue Escape, in cui un coinvolgente incedere boogie à la Young Brothers si sposa a un cantato che si sposta su registri più alti e su sapori anni ottanta, tra i primi Skid Row e i Poison. Need to live è invece una ballad di rock blues contemporaneo, a un tempo melodico e deciso, con un qualcosa degli Aerosmith. A parere di chi scrive, è forse questa una delle vette dell’album e porta subito alla mente visioni di highway sconfinate percorse in direzione american dream.
Una chitarra slide distorta ci conduce a Sting With My Venom, un mid tempo più robusto, caratterizzato in coda da un lungo assolo con il wah wah; ne vien fuori un riuscito esercizio di stile southern, il cui inciso nella strofa tocca piacevolmente territori cari al compianto Layne Staley. Con un repentino sbalzo di umore arriva la frizzante You’d Better Play Some Blues, che mantiene quanto promesso nel titolo; per quanto non originalissima, tra fraseggi ZZ Top e un drumming sempre puntuale, porta senza dubbio a casa il risultato.
È il turno quindi della lenta New Day, caratterizzata da un crescendo epico e da un assolo ficcante, macchiati forse da un pizzico di prevedibilità e ripetitività nello sviluppo delle melodie. Il motore della band riprende però giri con la seguente e davvero pregevole Damn Bite, nella quale il versatile frontman torna al Glam Rock ottantiano, la chitarra si fa camaleontica come non mai e la batteria orchestra alla grande i vari cambi di ritmo. Un tipo di scrittura più strutturato che ci auguriamo venga sviluppato ulteriormente in futuro.
No surrender ha un bel tiro ritmico, sulle ali di un riuscito rock blues contemporaneo, ma sconta un cantato davvero di maniera, con alcuni evitabili echi dei Bon Jovi meno ispirati. Chiude decisamente meglio il programma We’re Only Dust, che sfoggia un bel lavoro a livello di effettistica, uno dei migliori assoli del disco e piacevoli reminiscenze Aerosmith in un saliscendi di convinto lirismo.
In definitiva un esordio davvero consigliato e convincente, soprattutto dal punto di vista tecnico e, certo, per le rare qualità del cantante. Anche dal punto di vista compositivo, però, si apprezza più di una felice intuizione. Una grande competenza in materia e una grande passione che toccherebbero l’optimum se, per il futuro, si evitasse un certo manierismo purtroppo sempre in agguato nel genere a livello di melodie vocali.
Procedere a una maggiore ibridazione con musiche altre, magari la musica folk e la musica classica europee (come da lezione dei maestri Led Zeppelin; ma anche dei Depeche Mode di Personal Jesus, di cui i MET propongono un’ottima cover), potrebbe essere la felice soluzione.