Cinzella Festival 2019. Siamo con i fondatori degli I Hate My Village, Adriano Viterbini (chitarra) e Fabio Rondanini (batteria). La formazione, nominata band dell’anno dalla nostra redazione, è completata da Alberto Ferrari (voce) e Marco Fasolo (bassista, nonché produttore dell’omonimo primo album).
La vostra band è considerata uno dei progetti italiani più interessanti degli ultimi anni. Che tipo di villaggio Italia state incontrando in tour? Da cannibalizzare in toto o si incontrano scene interessanti?
FABIO: Mah guarda, la cena è al termine. Siamo all’ultima cena, infatti cerchiamo qualcuno da sacrificare sul palco (ride, Ndr). Scherzi a parte, no, non è da cannibalizzare per forza. Di sicuro è sempre più un villaggio, si va sempre un po’ indietro. Noi facciamo musica, in realtà, poi che arrivi un messaggio più ampio è quasi inevitabile.
Gli IHMV hanno un che di cinematografico. A parte il vostro nome che deriva da un b-movie ghanese, trovo il vostro sound molto adatto all’audiovisivo. Vi piacerebbe scrivere musica per il cinema?
ADRIANO: In generale, scrivere musica per il cinema è un’esperienza da esplorare perché ti permette di avere degli obiettivi diversi rispetto a quelli di una band o di chi fa dischi. Anche solo l’idea di poter suonare sottolineando delle immagini è un qualcosa che ci ha sempre affascinato. Magari abbiamo anche il riferimento di artisti che lo hanno fatto e che ci hanno ispirato, vedi Ry Cooder per esempio. Se noi ci prestiamo a questa cosa, non lo so. Noi al momento siamo una band che si diverte e fa musica anche un po’ per il momento in cui la fa. L’idea di stare su un film potrebbe solleticarci tra un po’, chi lo sa?
Come avete trovato il terreno comune dell’Afrobeat su cui far crescere gli I Hate My Village? Sappiamo che, per voi due, i contatti con questo genere vengono da lontano. Ma in che modo è avvenuto il coinvolgimento di Marco Fasolo e Alberto Ferrari in questa passione?
FABIO: La faccenda si è allargata piano piano. Io e Adriano venivamo già da esperienze quantomeno di ascolto e di studio dell’Afrobeat, approfondite poi girando con dei musicisti africani. Quindi tutto è partito da lì. Ma, in fondo, una volta che hai creato un contenitore, muoversi all’interno non è complicato. Sono le pareti del contenitore che ti limitano. Non c’era da imparare un linguaggio tradizionale o difficile. Marco ci aveva già prodotto l’album prima di iniziare a suonare in live con noi e anche Alberto è alla fine un appassionato di musica africana. Considera che il riferimento è stato quello, ma è stata più come una scintilla. Non volevamo fare un disco di World Music e tutto è stato molto naturale.
Il vostro è un progetto dalla vocazione sovranazionale, che punta fisiologicamente alla contaminazione. Pensate di proseguire il discorso con nuove influenze culturali al vostro sound o per ora Black Music e Mamma Africa continuano a farla da padrone?
ADRIANO: Tutto è stato molto naturale, dicevamo. Fondamentale è stato l’incontro di quattro individui che si son piaciuti e che insieme hanno un potere, quello di divertirsi e sperimentare, ispirandosi l’uno all’altro. C’è una sana competizione che mi piace, è stimolante.
FABIO: Noi siamo liberi, assolutamente liberi. Quindi boh, tutto può succedere.
Il vostro progetto ha dimostrato di poter funzionare bene sulla lunghezza dell’album. Nascete però in un momento infame, o almeno infelice, da questo punto di vista. Gli LP si ascoltano di meno, si preferiscono le tracce singole in playlist. Come artisti, sentite questa crisi dei dischi o ci avete fatto il callo?
ADRIANO: La questione è molto soggettiva. Parlando al plurale, ti posso dire che noi abbiamo fatto un album perché avevamo un tot di canzoni e quindi potevano essere contenute in un album. Credo però che viviamo nel contemporaneo e quindi l’idea che oggi la musica possa trasformarsi, che una band possa fare una canzone e andare a suonare per un anno in tour con quella – che sia bella però – non è problematico. Io credo che si possano scrivere delle storie brevi, dei fumetti, delle enciclopedie, dipende da quello che hai da scrivere, è quello che fa la differenza.
E per te Fabio?
FABIO: D’accordissimo, non è né la durata né forse ormai il supporto. L’importante è avere una visione e provare a condividerla.
Grazie ragazzi per questa chiacchierata, è stato un piacere
FABIO & ADRIANO: Grazie a voi!