Sarà capitato anche a voi di ascoltare una canzone, senza riconoscere né l’autore, né il titolo, e ricordarla semplicemente dicendo: “ah, ma questa è la canzone della pubblicità…”. Molti ne sono addirittura entusiasti e pensano che in fondo questo è il potere della musica. Ma, se approfondiamo un attimo la questione, scopriamo che c’è poco di cui essere felici.
Ho iniziato a riflettere sul tema in una notte d’estate. Tutto è partito dall’ascolto di un banale giro di “Do – Re minore – Sol”, suonato a ottave su un piano anni Settanta. Se impostate il metronomo a 131 bpm e suonate tre colpi secchi di Do, quattro di Re minore e infine nove volte Sol, per un po’ di giri, forse avrete la mia stessa sensazione.
Se siete dei cosiddetti “Millennials” cresciuti a pane e televisione, vi verranno subito in mente due cose: in prima battuta, uno dei brani più celebri della musica Synth Pop/New Wave, Video Killed The Radio Star; in seconda istanza, il Mago Heldin che incanta a tavola una famiglia intenta a pranzare con dei gustosissimi würstel Wudy Aia.
Siamo nel 2008 e il motivetto “Aia-Aia” – tanto diabolico quanto geniale, c’è da ammetterlo – cambierà per sempre la vostra percezione di quella che, a suo tempo, era stata una hit mondiale. Sono piuttosto certo che i The Buggles non intendessero riferirsi, in alcun modo, a dei würstel quando la scrissero. E lo trovo artisticamente ingiusto: l’intero messaggio di un’opera d’arte viene annullato per sfruttare il suo successo commerciale, come si farebbe con una miniera di carbone.
Proviamo a spingerci oltre. Dal punto dei vista dei brand, c’è un motivo scientifico ben preciso per cui si punta su operazioni del genere. Da una recente ricerca Nielsen, è infatti emerso che le hit musicali aumentano del 20% l’attenzione, il coinvolgimento emotivo e, soprattutto, il ricordo di uno spot pubblicitario. Inoltre, le hit datate prima del 2000, i cosiddetti golden oldies, registrano performance dell’8% superiori a quelle dei brani contemporanei.
E dal punto di vista degli artisti? Beh, di certo non storcono il naso di fronte a una delle “sincronizzazioni” – ossia l’abbinamento di un’opera musicale a una sequenza di immagini, al fine di creare un’opera audiovisiva, come un film, una serie televisiva, un documentario, una sigla o, per l’appunto, una pubblicità – tra le più redditizie in termini di royalty. Beatles, Aerosmith, Chuck Berry, Gorillaz… C’è un’intera galassia di artisti là fuori chiamati in causa in campo commerciale.
Parlando anche di artisti meno celebri, senza troppa ingenuità o falsa ipocrisia, possiamo serenamente affermare che gran parte di essi non disprezzerebbe la presenza della propria musica in uno spot di successo, non fosse per la diffusione potenziale, se non proprio per l’assegno mensile. Con la giusta pubblicità, al momento giusto, un intero Paese può ritrovarsi a “canticchiare” il motivetto di un ritornello. Ed è lecito aspettarsi che una parte di pubblico gradisca approfondire la realtà artistica dell’autore dietro quel pezzo. La maggior parte delle persone, purtroppo, è legata alla prima impressione e continuerà a conoscere solo quei 15 secondi di un’intera carriera discografica.
Magari molti di voi non ci avranno neanche mai riflettuto. Forse, in senso assoluto, non è affatto un problema. Ma perché non discutere del perché, magari, sia molto triste che ogni volta che ascoltiamo l’inizio del ritornello di Lemon Tree dei Fools Garden, debba figurarsi nella testa una bottiglia di Limoncè?
La musica, come tutte le arti, è da sempre “abusata” e prestata ad altri utilizzi, spesso decontestualizzati. Altro non è che il naturale ciclo di vita di un’opera che, una volta ceduta al pubblico, smette per certi versi di essere solo dell’autore, lasciandosi rendere “sua” da qualunque ascoltatore.
Dunque, non dovremmo offenderci se nelL’“OH-A, OH-A” dei The Buggles, il pubblicitario dell’Aia abbia sentito “Aia-Aia”.
Tuttavia, non posso fare a meno di pensare che, a differenza di film, serie TV o videogiochi, dove spesso per l’artista è addirittura un onore comparire, negli spot questo è molto più raro. A mio avviso, è proprio per questo che tali sincronizzazioni sono tra le più pagate, quasi come fosse un “risarcimento danni artistici”.
Ma mi piace pensare che ci siano molti che cercano qualcosa di diverso, dando un peso alle conseguenze artistiche delle proprie scelte. Centomila volte meglio i famosi jingle pubblicitari, creati ad hoc per rendere subito riconoscibile il payoff o il messaggio di un prodotto, con una musicalità studiata per rimanere nel cervello degli ascoltatori. Perché, se vi dicessi “Le stelle sono tante, milioni di milioni…”, voi, in cuor vostro, penserete subito a una fetta di salame fresco. Una scelta ancora più interessante può essere quella di creare vere e proprie colonne sonore per uno spot, con compositori che vivono per enfatizzare con la propria musica le emozioni di una scena, così come avviene negli altri audiovisivi.
Se sempre più pubblicitari scegliessero colonne sonore o jingle creati per l’occasione, si contribuirebbe anche ad invertire una brutta tendenza della discografia moderna: provare a “sfondare” con il minimo sforzo. Non serve più neanche un singolo, basta un solo ritornello, fatto bene, al posto giusto, nel momento giusto. E non conta più tanto cosa si comunica, perché è solo una continua gara a chi sforna il motivetto più orecchiabile.
Da un lato, dunque, gli artisti devono ringraziare le “sincronizzazioni”, perché accrescono la propria audience, ma c’è un prezzo: accettare di snaturare il proprio messaggio. Giusto? Sbagliato? Non sapendo decidere, lascio a voi questo onere.
Facciamo un gioco. Pensate per un momento ai compositori del passato. Anche loro non vivevano in un mondo fatato. Avevano debiti e vite difficili. Conoscevano bene il valore del mecenatismo, eppure tutto assumeva un’ambizione diversa. Ecco, secondo voi, avrebbero accettato di prestare 15 secondi delle proprie opere per uno spot pubblicitario? A voi la risposta.