Il ritorno è di quelli importanti. Di quelli che ripagano pienamente il tempo perduto e impiegato nella ricerca di un qualcosa che non conosciamo: un suono, un’identità, uno scopo, una ragione per cui valga la pena continuare. Tutto questo è alla base di QuaranTime, l’ultimo album di Koodja and the S.O.S, band seminale della scena roots/alternative californiana anni 90. Questo lavoro spezza l’assenza dalle scene che perdurava ormai da più di un decennio, segna un nuovo inizio, una rinascita. Rappresenta un’idea di renovatio.
È introspettivo, intimo e, per certi versi, catartico e liberatorio. La delicatezza e la levità con cui vengono affrontate alcune tematiche nei testi rispecchiano una certa maturità artistica, oltre che personale. QuaranTime è un lavoro consapevole, tenuto assieme da un filo rosso sottilissimo che unisce ieri e oggi: gli anni radiosi passati sognando e vivendo la California (con buona pace dei The Mamas & the Papas), suonando nei club della South Coast e un’attualità disarmante, ma pur sempre foriera di ottimi spunti. L’ottovolante su cui la band ci porta a fare un giro è in realtà un gorgo inestricabile in cui salite e discese si fondono e si confondono lasciandoci felicemente spiazzati e interdetti.
Ad accompagnarne l’uscita, ad aprile 2021, è stato il singolo Miles Away con la partecipazione di Maria Lenze Julia, già corista all’interno della formazione, e di Diana Cugia, figlia di Terenzio, frontman e fondatore della band. Il brano ci riporta nell’alveo del Pop Rock americano anni 90. Sullo sfondo sembra stagliarsi la figura dell’Alanis Morissette di Jagged Little Pill.
L’imprinting della scena alternativa californiana, di cui i Koodja and the S.O.S. sono stati esponenti negli anni a cavallo tra questo e il secolo scorso, è ravvisabile in diverse tracce: Star in the Rain, Nowhere Lady e Dream Vacation, su tutte. Non mancano chiari ammiccamenti al Pop e influenze da altri sound: alcune tracce ricordano i Wilco (Change è simile a One and a Half Stars, Smile invece si avvicina a Love is Everywhere), o Jason Isbell con qualche sfumatura dei Nobraino di No USA! No Uk!. Più in generale, QuaranTime può essere tranquillamente definito un album in itinere che viaggia sul filo sottile che lega Los Angeles e la Sardegna, un lavoro “On the Road” che parte da quella che Kerouac definiva “città dannata”, riflettendo sulla natura ossimorica del nome: “C’è la città chiamata Los Angeles, anche se nessuno riesce a vedere che cosa possa averci a che fare con gli angeli” e trova la sua chiusa e la sua chiave di volta in quella che viene definita l’isola eremo, ossia l’Isola di San Pietro, dove l’album è stato concepito. La ricerca di sonorità nuove da gettare nel calderone e mescolare insieme a quelle “auree” del Rock della South Coast si segnala per l’apprezzabile tentativo di uno smarcamento dai canoni classici e fa di questo lavoro un esperimento azzardato, ma sicuramente riuscito.