Quando si tratta di mastering, Giovanni Versari non è un’autorità, è l’autorità.Nel suo portfolio, ci sono alcuni degli album più iconici degli ultimi 20 anni e la sua attività sembra davvero instancabile. Gli abbiamo rivolto qualche domanda al MEI di Faenza, prima della pandemia. Ne abbiamo approfittato per scavare un po’ nella sua professionalità, cercando di capire qual è la chiave per raggiungere un tale livello di riconoscibilità e autorevolezza come mastering engineer.
Ciao Giovanni e grazie per il tuo tempo. La figura professionale del tecnico di mastering – credo sarai d’accordo – è forse un po’ meno conosciuta rispetto a quella del sound engineer dello studio di registrazione. Chi meglio di te per raccontarci chi è il tecnico di mastering: qual è il suo percorso di formazione e quanto è importante per il prodotto musicale finale?
Il tecnico di mastering altri non è che un tecnico audio con una specializzazione in una particolare fase di produzione che è quella finale. È quindi la persona che chiude il lavoro degli artisti su un progetto che è stato costruito in giorni, mesi, anni. A grandi linee, quindi, le competenze di un tecnico di mastering non sono troppo differenti da quelle di un tecnico audio, se non che l’attitudine è completamente diversa. Ciò che conta è proprio quindi l’attitudine che il tecnico di mastering mette nell’ascolto. Sintetizzerei il mastering come un ascolto critico e analitico sulla qualità della registrazione. E nella fase in cui interviene si deve comprendere cosa serve a quel lavoro per arrivare a dare il massimo.
Partendo un po’ da lontano, dal passato, prima di approdare al mastering hai – per così dire – fatto tante diverse esperienze sonore. Sei stato musicoterapista e ti sei anche occupato di restauro sonoro di pellicole conservate in diverse cineteche. Cosa ti è rimasto di quelle esperienze anche nel tuo presente professionale e personale?
Il mio è stato comunque un percorso che ha avuto sempre al centro la musica che, fin da ragazzino, è stata la mia più grande passione. Ho cercato anche di suonare, magari non avevo le doti, ma l’ho fatto. Però capivo che il mio interesse era sempre più spiccato dietro i bottoni. Quindi, quando ne ho avuto la possibilità nel mio periodo universitario, ho approfondito tutto questo con vari corsi, sia in Italia che all’estero. Corsi di sound engineering e non di mastering, ovviamente, perché non c’era ancora questa grande attenzione per quest’ultimo. Se facciamo un passo indietro, il mastering viene dal cutting, dal taglio del vinile, un’ottimizzazione funzionale al prodotto finale che, all’epoca, era in quel materiale. Si richiedevano quindi competenze sia da buon tornitore che da fonico. Perché magari un bravo tornitore crea un vinile tecnicamente impeccabile, ma dal sound inaccettabile: per fare un esempio banalissimo, basterebbe tagliare tutto quello che è sotto i 200 Hz e sopra i 10.000 Hz, mettere in mono e il vinile gira perfettamente, ma della musica rimane niente. Quindi cosa fa il tecnico di mastering? Ottimizza questo processo, rispettando la musica e facendo dei compromessi.
Io sono arrivato a fare mio questo concetto, ascoltando tanta musica e facendo varie esperienze nel settore. Sicuramente quella di assistente in studio a Rimini, in prima battuta. Poi quella legata ai percorsi di musicoterapia, anche questa una disciplina pionieristica in Italia alla fine degli anni 80, alla quale mi sono avvicinato da autodidatta, seguendo qualche seminario e avendo la possibilità di collaborare con un centro che lavorava sull’handicap. Ho lavorato con dei ragazzi disabili per un paio di anni con delle attività che si basavano proprio sul suono, non sulla musica prodotta ed eseguita. Ed è stato molto interessante, perché anche lì il tipo di ascolto era differente. E penso mi abbia insegnato tante cose, permettendomi di imparare ad ascoltare oggi i clienti. E poi, come dicevi tu, c’è stata l’esperienza in cineteca. Anche per quanto riguarda il restauro, agli inizi degli anni 90, si era in una fase pionieristica e per me è stata una passione molto importante. Anche perché alcune delle tecniche che si potevano usare per digitalizzare e restaurare le colonne sonore dei film erano sicuramente molto vicine a quella che io stavo riconoscendo sempre più come la mia strada, quella del mastering.
E la molla per arrivare a dedicarti soprattutto al mastering cosa l’ha fatta scattare?
Alla fine degli anni 80, io facevo l’assistente in uno studio dove passavano dischi grossi. E a incuriosirmi fu il fatto che, a fine lavorazione, mi lasciavano da solo in studio e mi dicevano “fai la scaletta, fai i volumi e manda in stampa”. C’era qualcosa che non mi tornava. Leggevo le riviste, certo, ma non c’erano tanti articoli sul mastering. Guardavo però i credits sui dischi degli altri e ritrovavo sempre il triplice passaggio registrato-missato-masterizzato.
E non capivo bene perché non si facesse da noi. Allora ho approfondito, anche avendo la fortuna di poter viaggiare per studiare e imparare certe cose. Fino a quando non ho deciso di aprire uno studio a Bologna che si occupasse proprio di mastering ed è stato il primo in Italia, parallelamente a quello di Antonio a Milano (parla di Antonio Baglio e del Nautilus Studio, Ndr). Abbiamo fatto un percorso simile io e lui, senza conoscerci. Poi ci siamo conosciuti e abbiamo lavorato insieme per 15 anni.
Al Namm di Milano, dove sei docente, la prima lezione che impartisci ai tuoi studenti è che il mastering non ha regole fisse ma modalità. Ecco, queste modalità tu le hai imparate da qualche maestro in particolare a cui ti sei ispirato o vengono fuori da tanta sperimentazione e contaminazioni diverse?
Nonostante io abbia avuto, come dicevo, la possibilità di viaggiare e assistere a sessioni di mastering all’estero, non credo di poter menzionare un maestro. Non perché io rifiuti questa logica, ma semplicemente perché il processo di acquisizione del mio approccio al lavoro non è avvenuto così. È stato piuttosto un processo che si è evoluto ed è cambiato, sperimentando, negli anni. Poi, quando mi è capitato di incontrare persone che facevano il mio stesso lavoro, ho potuto verificare che eravamo arrivati separatamente alle stesse conclusioni. L’attitudine comune che riscontravo era proprio quella al voler sperimentare ed è una cosa che ritrovo ancora adesso quando seguo all’estero delle masterclass, anche quelle non di mastering. Gli approcci, i dubbi e le soluzioni che si propongono sono molto simili. Faccio un esempio molto attuale, legato alla problematica che si è posta in relazione allo streaming digitale: le piattaforme hanno introdotto un controllo del volume che è un pochino arbitrario, non molto funzionale e utile alla musica. E questo mio pensiero è condiviso da molti colleghi, motivo per cui stiamo cercando tutti di lavorare a un’inversione di rotta.
In effetti, viene quasi da chiederti se tu e i tuoi colleghi vi sentite esaltati dalla complessa sfida posta al vostro lavoro dalle modalità di ascolto in streaming, o se piuttosto temete di vedere parte del vostro impegno frustrato e vanificato dal funzionamento e dalla qualità audio concessa dalle piattaforme.
Il problema forse si pone più per gli artisti che per noi. Noi cerchiamo di fare il nostro lavoro al meglio ed è per questo che ci stiamo muovendo per trovare delle soluzioni. Ma a soffrirne penso sia proprio l’artista che magari nemmeno comprende a pieno il perché di certe dinamiche.
Credo che ci sia anche un problema legato al “non detto”, che lascia spazio a tante leggende che aleggiano sul mondo del digitale, che andrebbero anche smontate. Anche sul mastering ce ne sono tante in giro…
C’è qualche mito che tieni particolarmente a sfatare?
Magari quello della separazione netta tra fonico di studio e tecnico di mastering. Non sono in realtà così lontani. Torno a dirlo, è l’approccio, l’atteggiamento che cambia. Faccio un esempio che amo fare anche nelle mie masterclass: un bravo mixing engineer è riconosciuto tale perché ha un gusto spiccato nella scelta dei singoli suoni che lo caratterizza, lo rende unico. Se facciamo ascoltare un mix di livello fatto da un mix engineer A a un mix engineer B, quest’ultimo ne riconoscerà la qualità, ma al tempo stesso sarà un po’ insofferente perché penserà a come avrebbe fatto tutto diversamente sulla base dei suoi gusti. Se un mastering engineer applicasse lo stesso approccio a un determinato progetto che, quando arriva a lui in realtà non è mai materia vergine, distruggerebbe completamente il lavoro di chi si è occupato del mix. Questo non vuol dire che un fonico di mastering non abbia gusto. Semplicemente, quando si mette all’opera, va oltre e cerca di distinguere tra scelte coerenti e scelte non coerenti in un mix. Poi magari va a casa, ascolta un album e dice “mamma mia che brutto rullante in questo disco, però è giusto nel mix”.
Ti ho anche sentito dire in una masterclass che un vantaggio per chi si occupa di mastering rispetto a chi fa il missaggio risiede nella freschezza delle orecchie, perché non partecipa a tutte le fasi del lavoro. Si rischia però di appiattirsi sui propri schemi lavorando a tanti progetti diversi, in maniera un po’ più distaccata e solo in ultima battuta?
No, credo di no. Il bello di questo lavoro è proprio quello di poter spaziare e ascoltare cose sempre nuove, anche velocemente, se vogliamo. Ed è una cosa che deve venire da dentro: se uno non è abituato ad ascoltare tanta musica e tanti generi, potrebbe quasi annoiarsi. Spesso mi viene chiesto come faccia io a lavorare su un album che non è nelle mie corde. Non c’è problema perché, affinché un lavoro sia difficile in mastering, dovrebbe avere tutto negativo: una registrazione brutta, un tipo di musica che non ti piace, suonato male. A certi livelli è rarissimo trovarsi in un caso così. Se anche uno solo di questi aspetti ti piace e ti coinvolge, ti posso assicurare che ci lavorerai nel miglior modo possibile. A volte magari non ti piace la canzone, però ne apprezzi subito la qualità nel lavoro di registrazione e questo è uno stimolo più che sufficiente per fare un ottimo lavoro. Tant’è che tanti anni fa mi sono ritrovato a concorrere per un premio molto importante con un progetto che era tra i più lontani dal mio gusto personale in assoluto. Però era fatto talmente bene che bisognava solo non rovinarlo. Perché il rischio in questo lavoro è anche rovinare ed è il motivo per cui bisogna ascoltare con molta attenzione per comprendere cosa va fatto.
Se volessimo per un attimo giocare, ci sono tre tool a cui non rinunceresti mai per mettere la tua firma su un lavoro?
Oddio, il fonico di mastering è tale perché abituato a lavorare in un ambiente, il suo studio, con tanti riferimenti certi. Però, rimanendo nell’ambito del gioco, ti direi le mie orecchie che sono sempre il tool principale. E poi forse un paio delle macchine più vecchie del mio studio (si riferisce allo studio La Maestà di Tredozio, Ndr), che sono le Klein & Hummel e l’EAR Yoshino 825q. Penso che a volte facciano la differenza.
Domanda scomoda finale: quanti progetti un mastering engineer come te riesce a gestire contemporaneamente?
Troppo difficile quantificare. Abbastanza. Un progetto infatti lo apri e, finché non lo chiudi con i master mandati in fabbrica, è da considerare ancora non finito. Magari stai lavorando a un progetto e oggi fai un singolo, poi tra una settimana il resto dell’album, però poi cambia un brano e rimane lì parcheggiato, e nel frattempo ne hai fatti e finiti altri 10. Nell’arco di un mese, o anche di una semplice giornata, ti ritrovi tanti progetti diversissimi tra loro per le mani. È così, è il mastering!