La stesura di questo numero de L’Olifante ha avuto inizio a settembre 2019 e mai ci saremmo aspettati di doverla interrompere a causa di una pandemia globale. Tuttavia, il rinvio ci ha dato anche l’opportunità di inserire nuovi contributi dando voce a una categoria di professionisti particolarmente colpita dalle ricadute economiche del Covid-19: i lavoratori del mondo dello spettacolo. A rappresentarli, in questa intervista, Max Martulli, tour manager & band assistant degli Afterhours.
Ciao Max e benvenuto nel nostro spazio editoriale. Tu frequenti da più di 30 anni l’universo-musica e sei stato scelto come tour manager da gente come Afterhours, Negrita, Vasco Brondi. Se un po’ tutti ai concerti sanno riconoscere i fonici e i tecnici di palco, il tour manager lavora un po’ più nell’ombra per il pubblico. Dato che con L’Olifante facciamo del nostro meglio per raccontare le professionalità che muovono il nostro mondo, ti va di spiegarci meglio cosa vuol dire “fare il tour manager”?
Ciao e grazie per questa intervista! Il mio lavoro, riassumendo in poche parole, consiste nell’organizzare un plan di spostamenti, viaggi, alloggi e ristorazione per la band o l’artista, nell’avere contatti con i promoter locali prima di andare in tour e, quando si è partiti, quindi on-the-road, nel verificare che tutto funzioni al meglio, assistere gli artisti in tutte le loro esigenze e a volte svolgere anche alcune funzioni burocratiche in supporto al direttore di produzione.
Lo scenario attuale non promette nulla di buono per la musica dal vivo e per le professioni a essa legate. Diventa allora significativo puntare sull’audiovisivo per ricordare a tutti cosa c’è dietro le quinte. È questo che si propone il docufilm “The Dark Side of the Show”? Parlaci un po’ del progetto e di chi sei riuscito a coinvolgere.
Sto producendo un docufilm che parlerà di tutte le figure professionali che lavorano nell’ombra, dietro le quinte e quindi nel “dark side” quali fonici, light designer, direttori di produzione, assistenti, backliner, booking, management, truck driver, scaff holder, tour manager, band assistant, rigger, ecc.; attraverso alcune interviste fatte ai diretti interessati e riprese fatte sul campo, racconteremo il loro lavoro e alcuni aneddoti legati alla vita in tour e durante la produzione dello stesso, che avviene poco prima di partire.
La musica comunque sta reagendo all’emergenza Covid. Le iniziative e le collaborazioni si sono moltiplicate. Cosa si può fare, in questo periodo, per aiutare la causa di quelli che sono un po’ gli invisibili della musica, gli intermittenti? A chi bisogna rivolgersi? Quali battaglie pensi siano più importanti?
Penso che noi maestranze del mondo dello spettacolo ora più che mai dobbiamo fare squadra ed essere uniti nel farci sentire come categoria. Non abbiamo mai avuto un sindacato che ci rappresentasse e magari adesso è il momento di organizzarlo. Penso che anche noi abbiamo bisogno di ammortizzatori sociali, che permettano di affrontare questo stand-by, spero, temporaneo, e di non perdere professionisti lungo questo percorso di non-attività. Questa è la cosa che temo di più.
Un tour manager come te, quanto deve e quanto può riconvertirsi in questo periodo senza snaturare del tutto la sua professione? Credi che i live in streaming, se perfezionati, possano un minimo supplire a limitare i danni in attesa della vera ripresa delle attività dal vivo?
I live streaming, se pensati in grande e non più dalla propria camera da letto, avranno bisogno nuovamente (credo) di qualche tecnico al seguito, quali backliner e fonici, magari anche col mio aiuto nell’organizzazione della logistica. Poi dipenderà molto da dove si vuole trasmettere ecc.; ma va ripensata tutta la macchina organizzativa, vanno rivisti costi e cachet e, di conseguenza, anche gli introiti per noi maestranze. Potrebbe essere una linea di ripartenza fino alla completa riapertura degli eventi. Navighiamo a vista e sento la nostra categoria e gli artisti stessi come nuovi pionieri alla scoperta di qualcosa di totalmente inesplorato sino ad ora.
Anche prima dell’emergenza, hai sempre mostrato interesse per la promozione delle figure professionali del mondo musicale, con progetti di formazione nella Scuola. Nella tua esperienza, sono in molti a rinunciare a fare della passione musicale un lavoro semplicemente perché non hanno il talento per essere rockstar?
L’artista deve avere talento per esprimere qualcosa di unico e speciale. Ci deve essere quel quid per fare quel mestiere e bisogna ovviamente credere in se stessi. È facile abbandonare la strada quando non si vedono successi, magari dopo svariati anni di sacrifici. Alcuni di questi ragazzi sono poi diventati degli ottimi tecnici del “dark side”. Molti di noi, prima di passare dietro le quinte, erano e sono tutt’ora degli ottimi musicisti. Insomma la passione per la musica può diventare lavoro in molti settori. Basta impegnarsi e i risultati arrivano.
Che tipo di rapporto hai maturato negli anni con proprietari di venues, organizzatori di festival, tecnici e artisti? Esiste una grande “famiglia” musicale che si vuole bene là dietro o devi fare da paciere tra tante anime che devono collaborare bene anche quando c’è maretta?
È una delle cose più entusiasmanti del mio lavoro incontrare professionisti che amano l’arte, la musica e la cultura, quali organizzatori e promoter, anche loro figure nascoste al mondo dei fruitori dei live show. Le famiglie che noi chiamiamo in gergo “crew” si formano e si consolidano strada facendo, quindi on the road durante le tournée. Vi assicuro che il legame e l’affiatamento che si crea tra colleghi rimane unico e indissolubile per sempre, anche se non ci si vede per anni.
Domandone finale. Sei in tour da tre decadi, negli anni è cambiata molto la geografia dei generi in Italia? O regionalismi e tradizioni fanno sì che alcune aree rimangano, con i loro club e festival, lo zoccolo duro per determinati sound nel nostro Paese?
Sono spesso presenti, in ogni regione, uno o più artisti local che hanno sempre il loro zoccolo duro di fan e lavorano benissimo nella propria area geografica di appartenenza. Ovviamente passano gli anni e gli artisti si susseguono, dando spazio (per fortuna) anche ai nuovi talenti, che poi magari, da lì a qualche mese, passano a un livello di notorietà nazionale. Ormai con la rete si viaggia alla velocità della luce e arrivi al pubblico in un attimo.
Poi bisogna pensare che esiste il mainstream che ha una mole di lavoro diversa dall’underground. Ad esempio, gli stadi li fai con il Pop Rock, mentre le altre realtà hanno bisogno di spazi più piccoli. Tutto dipende da moltissimi fattori ed è difficile capire cosa succederà l’anno successivo.
Alcuni festival nazionali resistono bene e hanno sempre più successo. Alcuni, addirittura, sono arrivati, secondo me, a competere con quelli di altri paesi esteri come Stati Uniti e Regno Unito. Diciamo che, con l’avvento del web, ormai non esistono più quelle barriere che determinavano un sound prettamente nazionale o regionale. Ora siamo un unico gigantesco paese.