Il ritorno delle musicassette racconta la nostra epoca

Negli ultimi anni il Web è stato sommerso sempre più da articoli riportanti statistiche sull’impennata delle vendite di musicassette. Crescita del 23% negli Stati Uniti, addirittura del 120% nel Regno Unito: questi sono solo alcuni dei dati riportati da Nielsen Music per il 2018. Non solo, si parla di prospettive di crescita annuali intorno al 20%. Ma no, come avrete forse intuito dal titolo, qui non vi si vuole raccontare con entusiasmo il ritorno in auge delle musicassette. 

Dobbiamo avere piena coscienza, in primis, della reale entità del fenomeno e, pertanto, non farci incantare dagli aumenti percentuali. 

Nel Regno Unito, Billie Eilish è in testa alle vendite di musicassette, ma con sole 4 mila copie vendute. In generale, negli Stati Uniti, sono state vendute circa 170 mila musicassette. In tutto il 2017. Insomma, è facile registrare aumenti annui del 20, 30 o 50%, su numeri così bassi. 

Ma allora è un “falso fenomeno”? 

No, affatto. Stiamo parlando di un supporto che, diciamocelo francamente, non ha alcun vantaggio tecnico dalla sua, né da un punto di vista della qualità audio né della comodità. Per questo, dunque, anche solo la crescita delle vendite di questo supporto merita un’analisi, soprattutto da un punto di vista sociale. La mia vuole essere una riflessione più ampia, utile, a mio avviso, per descrivere lo stato di salute  della musica, proprio attraverso l’ascesa delle musicassette.

Chi gioisce ciecamente per un apparente ritorno agli albori è anche chi continua la sua fervida lotta contro il fenomeno che viene, dai più, etichettato come “il nemico da sconfiggere”: lo streaming. 

Bene, non è lui il nemico da sconfiggere, quanto noi stessi. Vediamo perché. 

Lo streaming non è altro che la naturale conseguenza dell’evoluzione del mercato e del progresso tecnologico che, volente o nolente, ha travolto anche l’industria musicale. Spesso, però, si parla dello streaming come se fosse caduto un bel dì dal cielo e finito, come per magia, dritto nei nostri smartphone pronto per l’uso, mentre tutti noi eravamo tanto, ma tanto affezionati ai nostri lettori cd.  Da ciò che si legge ogni giorno online, sembrerebbe sia andata così.

E invece la verità è che lo streaming l’abbiamo voluto noi, e dico tutti, perché risponde a un nostro difetto congenito: la pigrizia. Sognavamo un modo più comodo e versatile (un modo edulcorato per dire indolente) di ascoltare le singole canzoni che desideriamo, senza essere obbligati ad acquistare un intero album, quando lo desideriamo, ovunque lo desideriamo e, già che ci siamo, pagando il meno possibile. Tanto tutto ci è dovuto. Tutti noi, in fondo e in qualche misura, accarezziamo tale pensiero, inutile negarlo: abbiamo noi il potere, e tutto ruota intorno ai nostri capricci. 

Non è questa la sede adatta per stabilire se questo sia un bene o un male in assoluto per la musica. Ma è innegabile che questa netta inversione di tendenza stia portando gli artisti ad assecondare sempre più la nostra pigrizia musicale, fornendoci brani sempre più brevi, piatti e standardizzati, che piacciano statisticamente a più persone possibili. Ormai, tanto, contano solo i numeri di views/streams. Ma se siamo arrivati a questo punto, l’abbiamo voluto sempre e solo noi. Perché, da un lato, vogliamo pretenziosamente avere la possibilità di scegliere la colonna sonora della nostra prossima doccia tra tutto lo scibile musicale, ma, dall’altro, siamo disposti a spendere a malapena l’equivalente di due pacchi di sigarette al mese per questa enorme possibilità. Ecco perché il vero nemico da sconfiggere siamo noi stessi.

Visto così, il tutto assume una dimensione sociale più che strettamente musicale.

Ma tutto questo cosa c’entra con le musicassette?

Proprio nello scorso numero de L’Olifante parlavamo del ritorno del vinile quale astuta mossa di marketing. Un fenomeno che ha a che fare più con la musica-oggetto, che con la musica-arte. Beh, il ritorno delle musicassette segue la medesima scia, se vogliamo con ancor più enfasi. Il ritorno delle musicassette racconta inequivocabilmente la morte del supporto fisico per la sua naturale funzione.  Per l’ascoltatore medio, non è altro che un mero oggetto con il quale identificarsi socialmente, ora come un cultore musicale, ora come un appassionato di vintage, ora come un collezionista.

Ormai comprare i dischi è inutile, se proprio devo spendere, tanto vale comprare qualcosa di più figo”, ergo vinili o musicassette.

E cosa c’è di male in tutto questo?

Di per sé nulla. Ad avercene di più di collezionisti di musicassette o vinili. Ben venga chi vuole provare il brivido di un salto nel passato o, in generale, chi investe nella musica. Tutto molto bello. Ma stiamo tutti tralasciando un piccolo particolare.  Nella cultura moderna, non si riconosce più il valore artistico che gli artisti ci donano. O meglio, riconosciamo questo valore solo a parole. Siamo tutti grandi ascoltatori e grandi fan mentre creiamo le playlist sul nostro Spotify “crackato”. Chi investe nella musica con passione è un’élite, il resto lo fa per mostrare qualcosa.

Forse, a pensarci bene, tutto questo si sintetizza in un solo dato. La musicassetta più venduta in questi ultimi anni è stata la colonna sonora del film Marvel I Guardiani della Galassia, pellicola in cui il protagonista fa uso di un nostalgico walkman anni ’80. Le musicassette, oggi, sono solo  uno sfizio, un gadget. E stiamo facendo proprio di tutto per ridurre la musica a una forma melodica di moda.

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