Hanno ancora senso le etichette indipendenti? Ogni mattina mi guardo allo specchio, conto i capelli bianchi (36, come la mia età) e me lo chiedo. Il fatto è che l’anno scorso, dopo una vita passata a scrivere, registrare, mixare canzoni, ho deciso di fondarne una. Si chiama Beautiful Losers, e si occupa di registrare e pubblicare album di artisti italiani che scrivono in inglese. In pratica, i pesci fuor d’acqua del nostro piccolo mare It-Pop. Non esattamente quello che la mia povera madre direbbe “mettere la testa a posto”.
Le etichette indipendenti hanno creato la musica con cui sono cresciuto: il Grunge la Sub Pop, il Post-Rock la FatCat, il Dream-Pop la 4AD. Quell’aggettivo, indipendente, ha influenzato la mia visione del mondo tanto quanto certi film russi o Dylan Dog. Certo, molte cose sono cambiate da quando mi strappavo i jeans e ascoltavo le cassette dei Nirvana. Napster ha fatto esplodere l’industria musicale. Spotify ha raccolto i pezzi e li ha ricomposti, creando un nuovo modello di business che tutti stanno ancora cercando di interpretare. Il CD è morto e anche l’album non si sente molto bene (come dice Neil Young a proposito degli mp3, ma questa è un’altra storia). Siamo diventati bit nel flusso infinito della musica liquida. Personaggi come Madonna o i vincitori di X-Factor, prodotti a 360° da una major che ne controlla anche la marca di pinze per le sopracciglia, appartengono alla vecchia era geologica. Oggi il nuovo modello è l’autoproduzione. L’hanno adottato tanto il giovane musicista 2.0, quanto giganti come i Radiohead o Frank Ocean, questi ultimi con profitti milionari. Piattaforme come CdBaby o Bandcamp hanno permesso a tutti di distribuire i propri album, bypassando le etichette. E i social, da Myspace a Instagram, ci hanno convinto che i cinque minuti di celebrità sono finalmente a portata di mano.
Chiaro: per chi non è i Radiohead o Frank Ocean, l’avventura finisce spesso in naufragio. L’approdo al porto sicuro di un’etichetta rappresenta ancora il miraggio della maggior parte degli emergenti. Generalmente l’etichetta indie fa contratti più leggeri della major: all’artista spetta la produzione, l’etichetta gestisce distribuzione e promozione in cambio di quote sulle royalties e utili su vendite, concerti, merchandising. Invecchiando, ho scoperto che a questa condizione contrattuale si riferisce la parola indipendente, più che all’eroica lotta contro il Capitale. Aperta parentesi: le etichette che finanziano un disco non esistono. Non sono banche. Chiusa parentesi.
Nel mondo underground, in cui royalties e quote sono significativamente simili a zero, tutto si fa più complicato. Di cosa vive l’etichetta, se non guadagna? Molte hanno adottato la soluzione degli editori a pagamento. Offrono distribuzione, promozione. In cambio chiedono qualche migliaio di euro e, perché no, le edizioni. Non c’è niente di male nel vendere un servizio. Ma guardiamole da vicino, queste etichette. Hanno roster con legioni di artisti, tutti invariabilmente sconosciuti; trattano con disinvoltura una band Prog di cinquantenni, una reginetta della bellezza pronta per X-Factor, un progetto Ambient esoterico; hanno siti fatti con template pre-impostati; hanno loghi che ricordano le grafiche parrocchiali; hanno due like ma, fra i loro servizi, c’è “gestione social”; offrono “promozione” ma le uniche recensioni provengono da oscure webzine. L’aggettivo che usano più spesso per descrivere il loro lavoro è professionale. Manco fossero un’agenzia interinale. Un’etichetta non dovrebbe avere una visione artistica? Non dovrebbe trasmettere un’idea di stile? Non dovrebbe rivolgersi a un pubblico? Già diffido di chi si vanta di seguire qualunque genere musicale, figuriamoci se si tratta di un’etichetta. Il qualunquismo fa male alla politica come alla musica. Queste etichette non provano nemmeno a confrontarsi con i nuovi modelli di business, intercettano le autoproduzioni, raccolgono le briciole.
Mi guardo allo specchio: questi pensieri sul business mi stanno facendo venire le occhiaie. Meglio andare in cucina, fare il caffè. Il caffè rimette in moto il mondo. Sì, io ci credo che un’etichetta debba avere una visione artistica. Un’estetica, un immaginario. La guardi e capisci subito che musica fa. È il primo nome che viene in mente a chi cerca quel sound, solitamente lontano anni luce dai beat mainstream con l’auto-tune sulla voce. E credo che la parola indipendente possa rappresentare un approccio: la voglia di fare qualcosa di bello, senza dipendere dal profitto. Accarezzo quest’idea platonica di etichetta mentre sorseggio il caffè e ripenso al primo disco prodotto, quello di An Early Bird. L’abbiamo registrato a casa mia, in un minuscolo appartamento a Venezia. Quando è uscito con un’etichetta francese, ho fondato Beautiful Losers per supportarlo. Il nome di An Early Bird ha girato l’Italia e l’Europa, e con lui quello dell’etichetta. Ho iniziato a ricevere telefonate: artisti che, scrivendo in inglese, non ricevevano attenzione. Ho arrangiato, registrato e pubblicato altri dischi: A Red Idea, Mått Mūn, Leptons, ma a molti progetti ho dovuto dire no per ragioni stilistiche. Ho investito tutto quello che guadagnavo per migliorare la mia strumentazione, fare il sito e il merchandising. Sono nate collaborazioni con altre etichette, agenzie e magazine. Ho deciso che ogni nostra release avrà un artwork disegnato, e abbiamo iniziato a lavorare con illustratori italiani e stranieri. Da tutta Italia riceviamo brani per la nostra playlist Spotify, che è aperta ad artisti vicini e compagni di strada. Insomma, Beautiful Losers è diventata il centro di una rete di connessioni – di una scena.
E questo è ancora il senso di un’etichetta, oggi, no? Siamo abbastanza piccoli per immaginare di crescere e, visto che tutti cantiamo in inglese, guardare all’estero. Finché i capelli bianchi sono sotto controllo, si può correre il rischio di provarci.